G. B. Ferrari in un ritratto di Giuseppe “Pipin” Ferrari

I salassi del medico Santonina, i senapismi dello speziale Piccati, i decotti dell’erborista Bastiano, non valevano le patte sul dididetro somministratemi da mia madre ogniqualvolta mi fingevo a carte poche per marinare la scuola. Dio l’abbia in gloria quella santa donna, erano talmente secche da sbucciarmi la pelle sotto i pantaloncini. E guai a fiatare, col raviolo in gola per la rabbia e i rossori sulle guance, per la figura, se c’era qualcuno presente a godersi la scena.

Una volta mi intoppò per strada, mentre mi davo delle arie con una ragazza un po’ fuori del consentito sotto braccio, una fusta come si direbbe adesso, di quelle che dove passano ci lasciano lo sbrego come se avessero nella borsetta una intera profumeria.

La pulzella capì l’antifona al volo e si volatilizzò, io ci rimasi basito ad aspettare il resto, che mi fu dato seduta stante in pubblico, senza che potessi rifiatare perché mi turò la bocca con una sberla a punto e basta da togliermi il fiato.

Fortuna che a quel tempo di gente per strada ne circolava poca e quella che vi si incontrava aveva ben altro per il capo che pensare alle mie prime vicissitudini amatorie.

Facevan spettacolo a sé, di prima mattina e a tarda sera le capre e le giovenche avviate o di ritorno dai pascoli fuori mura e il mulo di famiglia era pur sempre nei miei confronti una personalità di primo piano e ce la fece a lungo a mantenersi tale, tanto che entrai al ginnasio che di voce in capitolo ne avevo meno di lui, che la bida sapeva guadagnarsela da solo mentre io erano più le volte che lasciavo i libri sotto gli scogli del molo per saltare la scuola di quanti me ne trovassi in tasca all’epoca delle pagelle.

Non è a dire poi che cosa successe quando, apriti o cielo, mi presi la prima cotta per una servotta del mio quartiere, che aveva più roba davanti e di dietro di quanta ne avessi mai sognato da quando il sangue aveva cominciato a ribollirmi nelle vene.

Adesso di busti rinforzati con i tiranti occhiellati da attaccare alla maniglia della porta non se ne indovinano più sotto le vesti, visto che in talune epoche dell’anno anche queste si riducono al minimo comune denominatore e di sottane con la frangia a paralume se ne incontra solo qualcuna nei musei e nei trattenimenti folkloristici e nelle commedie vernacole.

Tempo fa mi si è presentata alla vista la nipotina di una mia fregola giovanile dei miei bei tempi andati, che mi parve col magone che mi faceva groppo in gola, somigliasse alla sua nonna com’era trent’anni fa e se non fossi stato attento a quel che facevo, le avrei detto quello che si era soliti sussurrare fra labbro e orecchio alle figliole di allora, noi giovanottelli da domeniche di primavera, quando ci si credeva innamorati da perdere l’appetito e il sonno. E lei così giovane ed io quasi vecchio, ci si accorse subito di fare una gran fatica a capirci, pur parendoci di esserci sempre conosciuti, con quella pischiellina che avrebbe potuto essermi figlia due volte e che somigliava come due gocce d’acqua alla sua nonna com’era trent’anni fa.

Pure, mi sono risgomentato a risentirmi il sangue accelerare il suo corso nelle vene eho guardato riflettersi nella vetrina di un negozio a fianco, quel giovanotto invecchiato che ero io poi io e che avrebbe voluto prendersela per mano, lei, il ritratto della sua nonna, per portarmela come ai bei tempi a farla correre sui prati di Bignone, in mezzo ai fiori che ci sonoanche adesso, perché il tempo che passa è sempre primavera, ma per me ormai è l’inverno. Ogni giorno di più, sarà sempre più inverno e di fiori ormai non ne potrò cogliere altri in nessun prato.

La mia venuta al mondo aveva coinciso con l’inaugurazione nelle lampade a carboni, pendule come pere sulle teste dei passanti. E con l’epoca d’oro del caffè Rigolè, al quadrivio dei Malcontenti, con gli stessi clienti a tutte le ore del giorno, seduti fuori a quella dozzina di tavolini con le tovagliette di cotonina orlati di rosso e di blu come asciugatoi, a far osteria alle mosche con la tazzina vuota e il bicchiere d’acqua con la scorzetta di limone davanti che andavano a chi ce la faceva meglio ad impedire ai camerieri di togliercele davanti.

In casa nostra era la nonna Palmari la padrona, dispensatrice e moderatrice a seconda che premiasse o punisse. Intorno a lei seduta in poltrona nel salotto buono, tutte le facce di schiatta arcaica, intagliate da madre natura coi ferri della più rustica progenie, poco da dire e molto da fare, salute da travetti tagliati di buona luna.

Nonni e padri, mariti e mogli, figli, nuore e nipoti senza ombra di vizi, in quanto a noi che avevamo appena messe le prime pelurie, l’inverno ci chiudeva la porta di casa dietro fino alla stagione buona, mentre nella stagione buona, mentre nella stagione buona era facile ci scappasse l’amoretto dietro il cantone, col fiatone in gola e costantemente sul chivalà. I figlioli venivano da un anno all’altro a plotoni serrati. Mio nonno con un paio di mogli diciassette ne aveva messi all’onor del mondo, spiattellandosi al convento senza spremersi una goccia di sudore.

A quei tempi avveniva perfino che una tal Maddalena Gallina, moglie di un certo Pietro Olivero, desse alla luce tre pargoli in una volta, due femmine e un maschio, del peso complessivo di quindici chili. Il cronista dell’unico giornaletto edito dalla tipografia dei Merendini, con commovente candore, aveva scritto in un capo cronaca listato da un cordoncino in stile floreale: – La Gallina sta benissimo e i pulcini anche. Resta a vedere come ci sarà rimasto il gallo, al cospetto di tale abbondanza di uova. Fatto curioso, la Gallina era rimasta due anni consensualmente separata dal legittimo consorte, col quale era andata di nuovo a far vita comune solo nel mese di maggio, mentre il lietissimo eventoerasi verificato la seconda settimana dell’anno dopo. Par di vedere i lettori contare sulle dita dall’uno al sette con la giunta di pochi giorni, per venire alla conclusione non essere vero affatto che il tempo perso non si riacquisti più.

La parentela cresceva, gli uomini buoni lavoratori e le donne ottime massaie che tiravano al soldo spaccando il proverbiale capello in due per farci la punta a fine mese con l’esempio della Madre Grande che guidava da seduta in poltrona, col pappagallo donatole tant’anni prima dal cugino notaio Sgarrida sul trespolo accanto, famiglia e pollaio, casi e orologi che non andassero avanti e indietro, che custodiva la roba di dosso di sopra e di sotto, avvalendosi dell’ausilio della vecchia fantesca in primis Caterina Collostorto, cui si affidava al punto da incaricarla di lustrare le batterie di cucina e i marengoni nel forziere, perché diceva la nonna Palmari che quando si doveva pagare, bisognava farlo con denaro pulito ed è forse anche per questo che la rispettabilissima vecchia era riverita da tutti e non ci sarebbe stato nessuno al mondo che si sarebbe azzardato a non darle del lei.

Col nonno si davano del voi con tanto di inchino preliminare prima di aprir bocca, e in quanto ai figli e a tutto il casato, il lei era di prammatica. Da me solo, ultimo della nidiata del prediletto figlio minore ch’era poi mio padre, gradiva il tu. Ma pretendeva lo stesso baciamano degli altri, tramutandolo mentre glielo accennavo chinandomi in una carezza a sberla eppoi finiva in una monetina tratta dall’ampia saccoccia pendula fuori sottana, che tinniva sempre piena a metà di spiccioli destinati in gran parte alla carità del prossimo.

La nonna era la custode del focolare. Ad ore fisse, rimestava di persona fra le ceneri calde, che in fondo al camino fasciavano i fianchi alle panciute caffettiere di rame, facendole togliere dal caldo dalla nuora più anziana per servire il caffè agli ospiti, nelle capaci tazzine orlate di un filettino d’oro zecchino, che il nonno le aveva donato per il battesimo del primo nato.

Gli ospiti eran sempre gli stessi, perché prima di accoglierne dei nuovi la nonna avrebbe preteso l’impossibile in quanto ad informazioni sul loro conto, il regio notaio Tomaso Lasagna, il conte Ceccopieri cavaliere del Santo Sepolcro e più sepolcro imbiancato di lui non ce ne sarebbe potuto essere altro, il medico Gian Gerolimo Ajcardi, il pro sindaco cugino carnale Antonio Bottini, il giudice di Cassazione giubilato Asclepia Bracco collateralmente imparentato coi Doria, il professor Verde abate di San Siro e preside del Liceo Ginnasio, l’ingegnere Innocenzo Bonfante, il medico entomologo insigne Giovanni Pisapia, i dottori Onetti e Bestoso ed altri pochi di minor conto che non vale neppure la spesa nominare, perché collateralmente imparentati qual più qual meno con le nostre due razze, le quali di consanguinei annacquati per trapassare di generazioni guai a volerne calcolare il numero.

Fra tutti costoro che facevano bave per la soddisfazione a quella gran donna della mia Madre grande, mi resta impresso davanti agli occhi come se fosse ancora vivo, però, il marchese Bertuccelli, una pittoresca macchietta…