Non è più il Rigolè, o il caffè Dottor Antonio in via Corradi, o di Francia e Risorgimento in via Palazzo, Garibaldi sulla strada nuova, a pochi passi dalla famosa Maison Dorée con tanto di orchestrina e kellerine: morti, scomparsi, con i loro frequentatori d’uso abituati a sostarci una giornata intera, dall’alba al tramonto davanti al tavolino vuoto di consumazioni, senza che il padrone se la prendesse calda e il cameriere intervenisse in merito.

Per le strade quattro gatti da contarsi sulle dita, ciascuno sapeva il nome di tutti e non facevano neppure a fatica di salutarsi perché tanto erano sempre i soliti. Se compariva una faccia nuova, era un fatto di cronaca e nessuno gli levava più gli occhi di dosso.

C’era la signora cinquantenne, sul poggiolo della pensione de Russie in via Gioberti che aveva acquistato dal farmacista Roberto Squire in via Vittorio, il biondo dei capelli, e che in virtù di molti falli giovanili, teneva circolo con la sua esperienza e per il tatto disinvolto; c’era la signorina da marito che per rendersi affasciante e per crearsi un alibi da intellettuale, aveva imparato a memoria i titoli delle novità librarie esposte nella vetrina del cav. Giuliano Gandolfo, e li snocciolava fra l‘attonita ammirazione degli astanti; la giovane signora del signor Presidente che esibiva le volpi argentate che il marito non poteva pagare ma che viceversa sarebbero state pagate lo stesso; c’era la studentessa, considerata una mosca bianca, troppo disinvolta per essere farina da far ostie, anche se andava diritta per la sua strada senza voltarsi indietro.

Nei crocchi attorno al chiosco della giornalaia Madama Scarella, sotto l’orologio a quattro facce del Rigolè, c’era sempre lo spiritoso di turno che raccontava storielle col doppio senso in coda, udendo le quali bisognava per forza ridere se non si voleva esser presi per dei tonni morigerati e casti. Si giocavano i Tarocchi, la scopa e la briscola, il tresette e la barzica, qualche coppietta – libera nos Domine! – si appartava e qualche madre ostentava di non essersi accorta di nulla. Occhiate languide, furtive, strette di mano da farci restare le gnocche, pestamenti di piedi dalla vita alla morte, macelli sotto i tavoli con le mani, a rischio di imbattersi in uno spillo da balia apertosi a tradimento.

C’era il cantone dei malcontenti, davanti all’antica farmacia Luca Calvi padre, col figlio dott. Tonuccio, grosso come un monumento e con una barba da pirata benigno, che tra la confezione di una pillola e di una cartina di salicilato, usciva a dire la sua.

Solitamente teneva banco il pubblicista e gerente responsabile della Parola Socialista Pino, che si firmava Onip, il quale un brutto giorno, per averle dette troppo grosse, dovette emigrare in Francia. I compagni, da buoni compagni, ve lo lasciarono languire in assoluta miseria, in omaggio alla fratellanza proletaria. Quando fu al lumicino, tornò a Sanremo in tempo per essere ficcato dentro. Ricoverato in ospedale venne soccorso dagli avversari, quelli che erano definiti i forcaioli, i capitalisti e morì di consunzione, lieto di andarsene dopo averne viste, sul conto dei suoi compagni di fede, di cotte e di crude.

Anche se le lunghe soste ai quattro angoli che continuano a chiamarsi del Rigolè, usano ancora, come tutto è mutato! È lì che indugiano gli impiegati del Credito Italiano che prima era la Banca Rubino, i quali dopo un laborioso lavoro di suggestione, finiscono per sentirsi altrettanti Rotschild in persona, i Croupiers della Casa da Gioco che hanno sempre da protestare perché non par loro di guadagnare abbastanza, gli avvocati di fresca data che si intogano alla moda del Belu Chechìn di quarant’anni fa: -sensa de mì, mudestia a parte, u nuu saa sereva scapurà!

 

A zuventù a me canta
sempre in po’ ciù da luntàn
e, malincunia riendu,
a me fa ciau cu a man.

 

Il giovanottino che ero allora, riuscito a farmi pubblicare i primi scritti dal giornale, sputava sentenze e poneva il suo nome accanto a quelli di Luigi Barzini e di Vergani.

 

Fin che a nu l’ho persa de vista
m’è paresciùu d’avera cun mì
avù, purtropu, in malinconicu adìu
a ghe stagu dandu mi ascì.

 

Adesso ci sono i cinemà, c’è il tennis, il golf, il tiro a volo, il calcio e la palla canestro, dove si sentono i nomi più impensati, meno che quelli nostrani. Con molta pacchianeria le Maddalene diventano Magda, le Caterine Katy, le Lucie Lucy, le Rosine Rosy, tutte con l’ipsilonne finale, i Giuseppe Puny, i Bacicìn Gionny o Joe.

E il tempo passa, e con esso si avvicendano una dopo l’altra le stagioni, e il rimpianto a volte ti prende alla gola e ti mette il magone fra i denti.

 

Cume a chi lascia de noeite
u paise partendu pè mà,
fin cu vè a punta du Cavu
u se po’ ancura cunsulà…

 

Ma con le figliole di un tempo che adesso sono nonne, e gli acciacchi che non ti fanno respirare, ti accorgi di avere ormai ben pocu fì scè a rucca e non ti resta che prepararti a dare il crèpo finale, convinto di non valere più neppure meza muta, a darci dentro di grosso.

Chi se ne ricorda più di quando, il 5 marzo del 1910, l’aviatore Henry Rougier, di ritorno da Heliopolis, giunse a Montecarlo e il giorno dopo tentò l’arditissimo volo fino a Sanremo, vincendo un premio offerto da Madame Lurati. Era accompagnato dal costruttore dell’apparecchio monsieur Voisin.

Durante i voli del suo collega Legagneux a Nizza una nostra simpatica e graziosa…

(manca il seguito)